Il 9 luglio 1940, a largo delle coste della Calabria si svolse lo scontro navale di Punta Stilo. Fu una battaglia navale importante sotto molti punti di vista e con molti primati: il più grande scontro navale nel Mediterraneo dai tempi di Trafalgar, il primo grande scontro tra la Regia Marina e la Royal Navy e anche la prima vera battaglia aeronavale della storia. Quello scontro avrebbe condizionato la condotta navale italiana e britannica nei mesi successivi, definendo l’andamento della guerra navale nel Mediterraneo.

Il contesto strategico-operativo

Il 10 giugno l’Italia fascista entrò nella Seconda guerra mondiale. Si trattava di una decisione in realtà presa tra il marzo e l’aprile precedente, quando il duce Benito Mussolini si era ormai convinto dell’impossibilità di rimanere a lungo neutrale, pena il declassamento dell’Italia a una “Svizzera moltiplicata per dieci” e la privazione per il regime del pinnacolo della sua evoluzione: una guerra di revisione dell’ordine internazionale che avrebbe dovuto portare all’affermazione di un “nuovo ordine mediterraneo” in cui al predominio anglo-francese si sarebbe sostituito quello italiano.

Sin dalla Guerra d’Etiopia (1935-36), la politica estera italiana si era decisamente

Marinai italiani osservano i punti di caduta dei colpi inglesi (Crediti immagine Archivio Centrale dello Stato)

allineata alla Germania nazista, ritenuta l’unico partner in grado di sostenere le mire espansionistiche dell’Italia e quindi la politica estera e militari italiane si erano orientate verso la preparazione a un conflitto contro Francia e Gran Bretagna che si riteneva plausibile per il 1942.

La Regia Marina aveva adattato la sua politica navale e la sua preparazione a questa ipotesi di conflitto. Il riarmo fascista aveva consentito alla Regia marina di crescere rapidamente, tanto da superare in termini numerici la Marina francese già a metà degli anni Trenta, e di dotarsi di un nucleo di 4 navi da battaglia rimodernate (classi Cesare e Doria) e 2 costruite ex-novo abbastanza moderne (classe Littorio, altre due erano in costruzione).

Contando sulla posizione strategica della penisola, la Marina italiana mirava a mantenere separate la Mediterranean fleet e la flotta francese, dislocate rispettivamente nel Mediterraneo orientale e in quello occidentale. Ritenendo che la loro superiorità avrebbe spinto gli anglo-francesi all’offensiva, nel tentativo di distruggere la flotta italiana, lo scopo operativo della Regia marina era di battere ciascuna delle due squadre nemiche, stimate di forza pari-inferiore a quella italiana, prima che potessero congiungersi in un’unica forza.

Inoltre, per migliorare le possibilità di successo italiane era fondamentale che nel loro avvicinamento al Mediterraneo centrale, le forze nemiche fossero logorate da attacchi aerei e di sommergibili, motivo quest’ultimo per il quale la flotta subacquea italiana aveva raddoppiato le sue dimensioni negli anni Trenta, fino a diventare la maggiore del mondo dopo quella sovietica, spezzata però in quattro diversi bacini marittimi. In questa ipotesi, il traffico con la Libia era ritenuto possibile solo saltuariamente e nella colonia le forze italiane, trasportate prima dell’inizio delle ostilità, avrebbero dovuto mantenere un contegno difensivo contro gli attacchi anglo-francesi provenienti da Tunisia ed Egitto.

Tab. 1 – Flotte nel Mediterraneo (Giugno 1940)

Italia

Francia

Regno Unito

Portaerei

1

Navi da battaglia

6*

3

5

Incrociatori da battaglia

2

Incrociatori

22

14

9

Cacciatorpediniere

52

38

31

Torpediniere

69

6

Sommergibili

105

40

12

Scorte

1

21

5

Totale

253

125

63

*2 classe Doria in fase di completamento dei lavori di ricostruzione, pronte tra settembre e ottobre 1940.

Tale impostazione strategica era destinata a modificarsi in seguito agli avvenimenti della tarda primavera del 1940. Infatti, quando Mussolini decise di entrare in guerra tra marzo e aprile 1940, il quadro strategico preventivato dalla Marina riteneva che nella tarda estate 1940, quando plausibilmente l’Italia sarebbe scesa in campo, grazie alla conquista tedesca di Danimarca e Norvegia (aprile-maggio 1940) la situazione nel Mediterraneo si sarebbe alleggerita per l’Italia.

In questo scenario, la esistente teoria operativa difensivo-offensiva italiana di proteggere le acque prossime alla penisola separando le forze nemiche sembrava potersi svolgere efficacemente, complice il completamento del riammodernamento delle due navi da battaglia Doria e Duilio, previsto per inizio autunno, che avrebbe portato a 6 il numero delle corazzate italiane disponibili.

Il 22 giugno 1940, a poco meno di due settimane dall’ingresso in guerra dell’Italia, però la Francia uscì dal conflitto in seguito al collasso militare causato dall’invasione tedesca. La rapida caduta della Francia sembrava costituire la premessa a una imminente invasione tedesca del Regno Unito fatto che accelerò l’offensivismo di Mussolini con la decisione di invadere l’Egitto per conseguire un importante successo da portare al tavolo della pace. Per l’Italia divenne quindi prioritario il mantenimento delle comunicazioni con l’Africa settentrionale.

Fortunatamente, l’uscita di scena francese rimosse la minaccia della Marine Nationale nel Mediterraneo occidentale, lasciando solo la Forza H di Gibilterra, più distante e debole delle forze navali francesi, come unica minaccia sul fianco occidentale italiano, fatto che rendeva molto più sicuri i trasporti verso la Libia, essendo le forze nemiche agli estremi opposti del Mediterraneo.

Dal canto loro i britannici si resero conto che diventava prioritario attaccare le comunicazioni italiane verso l’Africa settentrionale. Malta, al centro delle rotte italiane era il punto focale da cui poter far partire gli attacchi. Tuttavia, dopo il 1935 si era sostanzialmente rinunciato alla difesa dell’isola e al mantenimento di forze navali nel Mediterraneo centrale a causa della minaccia aerea e subacquea italiana.

Gli eventi del giugno-luglio 1940 rovesciarono questa prospettiva, rendendo prioritario rafforzare l’isola per attaccare le comunicazioni italiane nel Mediterraneo centrale scortando massicciamente i convogli destinati a rifornirla. Assieme a questo l’obiettivo della Mediterranean Fleet divenne quello di cogliere eventuali occasioni di successo contro le forze di superficie italiane.

Nell’estate 1940 perciò entrambe le parti avevano obiettivi grosso modo simili: utilizzare le proprie forze navali a copertura delle comunicazioni marittime e se possibile cogliere successi contro il grosso della flotta nemica se le condizioni si presentavano vantaggiose.

Va detto che la situazione italiana nel Mediterraneo centrale era favorevole data la maggiore prossimità delle basi navali nazionali e il predominio aereo che la Regia aeronautica possedeva su questo spazio di mare, essendo la copertura aerea della Mediterranea fleet, in caso di incursione nel Mediterraneo centrale, basata essenzialmente sulla componente imbarcata dalla portaerei Eagle.

Lo scontro

La battaglia di Punta Stilo scaturì quindi da questo quadro strategico, traendo origine dalle missioni a copertura dei convogli che la Regia Marina (operazione TGM diretta a Bengasi) e la Mediterranean Fleet (operazioni MF1 e MS1 dirette a Malta) stavano svolgendo in contemporanea nel Mediterraneo centrale nei giorni tra il 7 e l’8 luglio 1940.

Movimenti generali relativi alla battaglia di Punta Stilo (Crediti USMM)

Sia il comandante superiore in mare italiano, ammiraglio Inigo Campioni, sia quello della Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew Cunningham erano edotti della presenza in mare dell’avversario, il primo dalle informazioni fornite dall’intelligence italiana e il secondo dagli avvistamenti compiuti dai sommergibili e della ricognizione aerea britannica. Anche la forza H prese il mare con l’intento di compiere un’azione diversiva contro la Sardegna, ma gli italiani interpretarono correttamente le intenzioni del comandante della forza britannica, James Sommerville.

Il pomeriggio dell’8 luglio, con il convoglio TGM ormai diretto in sicurezza verso Bengasi e informato che la Mediterranean Fleet si stava dirigendo verso ovest provenendo da sud-est di Creta, Campioni decise di impegnare la forza britannica temendo che potesse presentarsi davanti a Tobruk per colpire le navi mentre stavano compiendo le operazioni di scarico.

La sua intenzione era di iniziare lo scontro un’ora prima del tramonto, ma Supermarina, l’alto comando della Regia Marina, si oppose ritenendo che le condizioni di luce e la distanza dalle basi aeree italiane ponessero Campioni in svantaggio, costringendolo invece al rientro in Italia.

Da parte sua Cunnhigham, informato dalla ricognizione aerea della posizione della flotta italiana, decise di frapporsi tra Campioni e le basi italiane. Supermarina, convinta che la Mediterranean fleet avesse intenzione di compiere un’incursione aeronavale contro la Sicilia orientale, la sera dell’8 ordinò a Campioni di portarsi a sudest delle coste calabresi e riunirvi tutte le forze, avendo allo stesso tempo libera la rotta di rientro a Taranto.

Nelle intenzioni di Supermarina bisognava attirare la Mediterranean Fleet in una trappola costituita da uno sbarramento di sommergibili e logorarla con attacchi aerei prima di affrontarla in uno scontro. Nel frattempo, lo stesso giorno la forza britannica era fatta oggetto di attacchi aerei della Regia Aeronautica che danneggiarono l’incrociatore Gloucester con una bomba lanciata da un S.79 che colpì il ponte della nave e uccise 18 membri dell’equipaggio tra cui il capitano, ma l’incrociatore comunque continuò a operare e partecipò allo scontro di Punta Stilo, come parte della scorta della Eagle.

Viceversa, le due unità corazzate italiane più moderne, la Littorio e la Vittorio Veneto che in teoria erano nel raggio operativo dello scontro, essendo nella base di Taranto, non poterono partecipare all’operazione perché c’erano importanti ritardi nell’ultimazione delle sistemazioni di bordo, in particolare delle artiglierie principali, ed erano state danneggiate la prima da un allagamento e di due delle tre torri di grosso calibro e la seconda da un incendio avvenuto nei giorni immediatamente precedenti la battaglia.

La mattina del 9 luglio, ormai a sudovest della Calabria, Campioni si aspettava, in base alle notizie disponibili, di trovare le forze britanniche a sud della sua posizione, ma la ricognizione aerea italiana aveva perso il contatto col nemico. Nel frattempo, però Cunningham era invece riuscito a portarsi a circa 50 miglia nordest della flotta italiana, fatto di cui Campioni ebbe notizia solo alle 13:30, costringendolo a invertire rapidamente la rotta e correre verso nord, per mantenere libera la rotta di rientro verso Taranto, rischiando di essere tagliato fuori dalla sua base principale. In seguito a questa decisione, le due flotte si avvicinarono abbastanza da entrare in contatto. Al momento del contatto balistico, avvenuto alle 15.10, le forze a disposizione delle due parti erano le seguenti.

Tab. 2 (Crediti E. Bagnasco, A. De Toro, Le corazzate delle classi Conte di Cavour e Duilio, 1911-1956, parte 2, Storia militare, marzo 2020, p. 135)

Campioni aveva mantenuto il suo grosso al centro, radunando tutti gli incrociatori pesanti (Bolzano, Trento, Gorizia, Fiume, Zara, Pola) e le navi da battaglia (Cesare, Cavour) per bilanciare l’inferiorità rispetto alle tre equivalenti nemiche (Warspite, Malaya, Royal Sovereign). In realtà, la Royal Sovereign a causa della sua velocità, limitata a 18 nodi, non poté mai prendere di fatto parte nello scontro. Inoltre, sebbene le navi da battaglia italiane avessero in tutto 20 cannoni da 320 mm contro 16 da 381 mm britannici, avevano una velocità superiore (26 nodi contro 22), il che implicava che gli italiani potevano dettare il tempo dell’azione.

Alle 15.53 entrambe le corazzate italiane aprirono il fuoco contro la Warspite, ammiraglia di Cunningham e Campioni ordinò agli incrociatori pesanti di serrare le distanze, ma gli incrociatori rimasero sempre al limite della distanza di tiro dei loro cannoni da 203 mm e perciò dalle 15.55 cominciarono a concentrare il tiro sulla Forza A, a distanze comprese tra i 15.000 e i 18.000 metri, la quale a sua volta prese di mira gli incrociatori pesanti italiani, con il Neptune che riuscì a centrare con

Schema della battaglia di Punta Stilo (Crediti USMM)

tre colpi in rapida successione il Bolzano.

Contemporaneamente lo scontro tra le corazzate procedeva, con il tiro italiano moderatamente accurato, ma con le salve disperse, al contrario il tiro britannico era più preciso e alle 15.59 un colpo da 381 attraversò il fumaiolo poppiero della Cesare esplodendo sul pone di tuga. Ne derivò un violento incendio in coperta, nella casamatta e nel locale alloggi sottufficiali, il cui fumo aspirato dalle caldaie da 4 a 7, costringendo allo spegnimento e facendo scendere la velocità della corazzata italiana a 18 nodi.

A questo punto, essendo venuto meno il suo principale vantaggio tattico, la superiore velocità delle sue corazzate, Campioni decise di rompere il contatto, accostando alle 16.05 verso ovest e coprendo la ritirata con cortine di nebbia attacchi siluranti condotti dai cacciatorpediniere rivelatisi inefficaci e alle 16.24 la flotta faceva rotta verso Capo dell’Armi verso lo Stretto di Messina. Nonostante le caldaie del Cesare fossero nuovamente in funzione, Campioni alle 17.00 rinunciò a riprendere il contatto col nemico, ritenendo di essere in condizioni di inferiorità date le 3 navi da battaglia a disposizione di Cunningham.

Dopo la rottura del contatto da parte italiana, gli attacchi condotti dalle unità siluranti britanniche furono ugualmente privi di risultato e lo stesso accadde a un attacco condotto da 9 aerosiluranti della Eagle contro il Bolzano e il Trento. Cunningham non volle entrare nella cortina di nebbia italiana, ritenendo sussistere il pericolo di attacchi siluranti e decise di tentare di aggirarla passando a Nord, ma quando la manovra fu completata, intorno alle 17.00 la flotta italiana era ormai fuori vista e l’ammiraglio britannico decise di dirigersi nuovamente verso Malta per rifornire i suoi cacciatorpediniere.

A questo punto fu la Regia Aeronautica a continuare l’azione, tra le 16.20 e le 19.15 tra i 35 e i 40 bombardieri attaccarono la flotta di Campioni, costringendo le navi italiane a replicare con le armi contraeree di bordo e fortunatamente senza subire danni. Gli attacchi contro la Mediterranean Fleet invece proseguirono anche nei giorni successivi, in particolare il 12 luglio, prendendo di mira particolarmente la Warspite che fu colpita ripetutamente da schegge di bombe cadute vicine alla nave, che però causarono danni di poco conto.

Il risultato

Supermarina una volta valutati rapporti e le informazioni fornite dall’intelligence nella sua relazione ufficiale concluse che durante la battaglia erano state “avariate” la Warspite e il Gloucester. Si trattò però di una valutazione errata che non trova effettivo riscontro nei danni ricevuti da parte britannica, limitati solo ad alcune schegge di colpi caduti in prossimità delle navi senza conseguenze.

Supermarina inoltre concludeva che la ricognizione aerea era stata solo parzialmente efficace e che la presenza di una portaerei era un indubbio vantaggio per le forze avversarie, che in questo modo potevano contare su un supporto aeronavale più immediato ed efficace. Inoltre, Supermarina concludeva che il tiro a lunga distanza italiano era risultato efficace, cosa che non corrispondeva alla realtà.

Ciononostante, l’interpretazione dei dati a disposizione convinse l’alto comando italiano che la battaglia era andata bene per la marina italiana e infatti già l’11 luglio Mussolini emanava una serie di direttive strategiche secondo cui la preponderanza aerea italiana nel Mediterraneo centrale e l’imminente disponibilità operativa delle Littorio avrebbe consentito agli italiani di battere efficacemente separatamente la Mediterranean Fleet o la Forza H, confermando la validità della teoria operativa italiana.

Concezione che sarebbe stata integrata il 14 luglio dai nuovi “Concetti generali per l’azione nel Mediterraneo” emanati da Supermarina che ribadivano la necessità di intercettare le forze nemiche in condizioni di superiorità locale, cercando lo scontro con il grosso della flotta nemica appena possibile, a patto che avvenisse non lontano dalle basi italiane, questo anche causa delle difficoltà della cooperazione aeronavale.

Questo spiega l’atteggiamento prudente imposto alla flotta nei mesi successivi e che trovò l’opposizione dei comandanti, a cominciare dallo stesso Campioni, che avrebbero voluto invece un maggiore offensivismo nel corso delle successive puntate di Cunningham nel Mediterraneo centrale. In sostanza, Supermarina cercava di portare il nemico a replicare le condizioni di Punta Stilo, per vincere uno scontro simile a quello in cui riteneva di aver conseguito un vantaggio.

I danni provocati dal colpo inglese andato a segno sul Giulio Cesare (Crediti immagine USMM)

Da parte britannica la cognizione dei danni subiti dalla flotta italiana fu più precisa, essendo a conoscenza del colpo sul Cesare attraverso varie fonti d’intelligence. Cunningham nel suo rapporto finale, redatto alcuni mesi dopo, avrebbe concluso che lo scontro avendo spinto gli italiani a rompere il contatto aveva stabilito una “ascendenza morale” sulla flotta italiana.

Fatto questo non vero, perché come abbiamo osservato Supermarina riteneva erroneamente di aver causato altrettanti danni di quanti ne avesse subiti. Il colpo della Warspite sul Cesare fu considerato “molto fortunato”, e a ragione visto che fu il centro di artiglieria navale a più lunga distanza mai riuscito. Punta Stilo fu considerata con “disappunto”, perché i danni alla flotta italiana erano stati limitati dalla mancanza di navi da battaglia abbastanza veloci da mantenere il contatto con quelle italiane e di un insufficiente supporto aeronavale, fatto che spinse alla richiesta di rinforzi di questo tipo.

Cunningham però concluse anche correttamente anche che i sommergibili e gli aerei italiani, considerati la principale minaccia all’integrità della squadra britannica, non potevano impedire alla Mediterranean Fleet di uscire ed entrare nel Mediterraneo centrale. Di conseguenza, questo assieme alla presunta ascendenza morale lo avrebbe riportato a operare nuovamente in quelle acque e anche a preparare l’attacco decisivo di Taranto dell’11 novembre 1940, che avrebbe messo fuori uso metà delle forze da battaglia italiana. In effetti, l’ascendenza morale di Cunningham non stava tanto nella sua presunta esistenza sugli italiani, quanto nella convinzione della stessa che ne alimentò lo spirito offensivo.

La ricostruzione dei fatti storici non si basa solo sul lato evenemenziale, ovvero comprendere quanto accaduto, ma anche quanto gli attori coinvolti pensavano fosse accaduto. Sia gli italiani sia i britannici ritenevano che in uno scontro tatticamente relativamente pari il vantaggio fosse stato dalla loro parte, a causa delle diverse valutazioni che fecero.

In realtà, dimostrando che poteva entrare e uscire dal Mediterraneo centrale Cunnigham aveva messo a nudo i difetti della teoria operativa italiana che per funzionare avrebbe richiesto forze aeronavali e subacquee molto efficienti che al momento mancavano, ma importante fu anche la scarsa efficacia dell’intelligence navale italiana che influenzò Supermarina spingendola a valutazioni errate che crearono i presupposti per l’atteggiamento difensivo dei mesi successivi.

A Punta Stilo questi limiti si sommarono facendo perdere alla Regia Marina la sua occasione migliore di infliggere un colpo decisivo alla Mediterranean Fleet.

Fabio De Ninno

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