NOTA REDAZIONALE

Il seguente articolo di Danilo Pellegrini verrà suddiviso, per ragioni di editing, in tre parti. Per maggiore comodità dei nostri lettori pubblicheremo in questa pagina, non appena saranno disponibili, i link alla seconda e terza parte (1).

Prima Parte

  1. Antefatto
  2. L’interrogazione parlamentare e gli sviluppi successivi
  3. Perché il relitto di Pola non può essere il Medusa

 Seconda Parte

  1. Confronto tra i due scafi
  2. La Flottiglia scomparsa
  3. Gli Uomini

Terza Parte

  1. L’identificazione del relitto
  2. Recuperi a Pola negli anni ’20
  3. I mezzi e la loro evoluzione
  4. Conclusioni

PRIMA PARTE

  1. L’ ANTEFATTO

Nella primavera del 2002 il quotidiano croato Jutarnji List pubblicava la clamorosa notizia del ritrovamento nelle acque antistanti Pola, più precisamente al largo del forte di Stoja tra Pola e Verudella, alla profondità di 38 metri, della sezione poppiera del regio sommergibile Medusa.

Il nostro battello era stato silurato il 30 gennaio 1942 dal sommergibile britannico Thorn, nelle immediate vicinanze dell’isolotto di Fenera, presso Capo Promontore.

L’HMS Thorn in navigazione, a lento moto, sul fiume Mersey (Crediti immagine IWM)

Il relitto, di cui non si conosceva l’identità, mi era noto già dagli anni ’80 e all’epoca ne avevo avuto notizia direttamente da chi, accompagnato sul posto da pescatori locali, aveva effettuato alcune immersioni, riportandone in superficie alcuni reperti.

L’autore dell’articolo sosteneva che i sommozzatori del Ministero della Cultura Croato lo avevano identificato ed il troncone appariva tutt’ora imbragato con cavi d’acciaio di sollevamento: si riteneva che successivamente alla perdita, nel corso del tentativo di recupero, il relitto fosse stato sollevato da un grande pontone e durante il rimorchio dal luogo originario dell’affondamento verso il porto di Pola, in sospensione del bigo di carico, fosse scivolato a mare a causa di un errore di manovra in prossimità della destinazione.

Il fatto venne enfatizzato dai diving locali, che prontamente inserirono nei loro programmi l’immersione sul sommergibile “Meduza”, che diventò così meta di molti sub e anche di ricercatori italiani e stranieri.

La notizia mi fece sorridere. Otto anni prima, a coronamento di una serie di saggi concernenti alcuni nostri ritrovamenti, pubblicati a partire dal 1991 nel Bollettino D’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, scritti in collaborazione con Pierpaolo Zagnoni, caro amico con il quale da lunghi anni avevo condiviso ricerche e immersioni, ci era stato richiesto dall’Ammiraglio Renato Sicurezza, allora Direttore dell’USMM, un saggio di approfondimento sulle vicende relative al Medusa, la cui documentazione d’archivio si fermava al 28 luglio 1943 ed era carente su alcuni aspetti della tragica vicenda.

Avevamo pertanto ottenuto l’accesso alla documentazione, allora ancora riservata, rilevandone l’assenza della parte relativa al recupero concluso il 15 giugno 1943.

Effettuammo ricerche a Pola, Medolino e Fenera, rintracciando un testimone dei fatti che asseriva di ricordare molto bene, ma con il quale, purtroppo, a causa della situazione contingente, non fu possibile conferire a lungo come avremmo voluto; la Croazia, infatti, si trovava allora in stato di guerra e le persone erano restie a colloquiare con degli stranieri sconosciuti.

Il saggio era stato pubblicato sul Bollettino d’Archivio dell’USMM nel dicembre 1994 ed aveva la peculiarità di aver accomunato le vicende dei due sommergibili Medusa che, pur in epoche diverse, erano stati ambedue silurati solamente a poche miglia di distanza tra loro, in prossimità delle proprie basi e con la perdita della quasi totalità dell’equipaggio.

Si dava, inoltre, rilevanza all’origine ed alla simbologia del loro nome: il nome Medusa, infatti, sia nella sua accezione scientifico-zoologica, sia in quella mitologica, fa riferimento all’ambiente marino e al terrore da esso provocato sull’uomo; da questo concetto trae origine il motto delle unità: “TERRET HOSTEM MEDUSA”.

Per agevolare la comprensione dei fatti, anche successivi, ne esporrò una breve sintesi: il primo battello a portare questo nome, era stato silurato ed affondato nel corso dei primi giorni del primo conflitto mondiale, il 10 giugno 1915 nel mare antistante il litorale di Jesolo dal sommergibile austriaco U-11 (numerazione attribuita al battello germanico UB 13).

Il sommergibile Medusa (I) ritratto nel golfo di La Spezia il 30 luglio 1911

Venne recuperato nel 1956 dal pontone jugoslavo Velj Joze per conto della cooperativa triestina Gorjup e deposto a terra alla radice della diga di Punta Sabbioni, diga nord dell’entrata del Lido di Venezia.

Al suo interno vennero ritrovati i resti dei 13 membri dell’equipaggio, rimasti intrappolati all’interno dello scafo, che vennero tumulati con i dovuti onori militari al Sacrario di Redipuglia.

E’ tradizione della Marina italiana, come di altre Marine, ripetere nel tempo i nomi delle navi da guerra: il 30 novembre 1929, infatti, venne impostato sugli scali dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone il secondo Medusa che, varato il 10 dicembre 1931, entrò in servizio l’8 ottobre 1932.

Apparteneva alla classe “600”, serie Argonauta, del tipo Bernardis, a semplice scafo, con controcarene esterne; 61,5 metri di lunghezza fuori tutto, 5,65 metri di larghezza massima, due motori termici per 1250 hp complessivi (625 hp cad.) e due motori elettrici per 800 hp. Dislocava 666,56 tonnellate in superficie e 810 in immersione.

Dopo lo scoppio della guerra partecipò a molte missioni di agguato in Mediterraneo, al comando del Capitano di Corvetta Enzo Grossi.

Nel marzo 1941 assieme ad altre unità della stessa classe, venne destinato alla scuola sommergibili di Pola. Il 30 gennaio 1942, alle 1405, al rientro da una missione addestrativa, al comando del Capitano di Corvetta Enrico Bertarelli, con equipaggio di complessivi 60 uomini, di cui 27 allievi ed istruttori, mentre navigava in superficie, in convoglio assieme ai piroscafi Grado e Carlo Zeno, al sommergibile Mameli ed alla torpediniera Insidioso, venne avvistato dal sommergibile britannico Thorn, che lanciò in emersione una salva di quattro siluri, di cui solamente uno centrò il bersaglio.

Il Medusa colpito a centro nave, sul lato sinistro all’altezza della torretta, affondò in pochi istanti a poco più di mezzo miglio dall’isolotto di Fenera in un fondale di 30 metri.

Il comandante Bertarelli venne sbalzato in mare assieme ad altri sei uomini che si trovavano nella plancia della torretta e, poco dopo, scomparve fra le onde.

Le imbarcazioni di salvataggio del Carlo Zeno, il piroscafo più vicino, raccolsero quattro membri dell’equipaggio, di cui due moriranno a breve per le ferite riportate e due incolumi: il Guardiamarina Giovanni Battista Firpo ed il Tenente di Vascello Gaetano Arezzo (che scomparirà pochi mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno, nel Canale di Sicilia al comando del sommergibile Uarsciek, colpito dal mitragliamento di unità nemiche).

Il Medusa affondò quindi con 53 uomini a bordo, di cui 14 erano rimasti incolumi, in buone condizioni, nel locale lanciasiluri di poppa: il capo silurista Riccardo Vatteroni, ne comunicherà i nominativi ai soccorritori attraverso la boa telefonica.

A Pola si stavano intanto organizzando febbrilmente i soccorsi in quanto le condizioni meteo stavano peggiorando rapidamente, ma solamente alle 0030 del giorno 31, dopo numerosi tentativi, i palombari riuscivano ad allacciare al Medusa le tubolature d’aria del sommergibile Otaria che tonneggiando sulle proprie ancore si era portato sulla sua verticale.

Il mare ingrossava sempre più, causando la rottura del cavo telefonico. Alle 0100 arrivava sul posto il pontone G.A. 146 che riusciva a stendere un’ancora al vento a rinforzo dell’ormeggio dell’Otaria e, in attesa del G.A. 141, allegati fuori testo, malgrado le condizioni del mare, si continuava a pompare aria.

Alle 0700 del giorno 31 i palombari, che si erano potuti reimmergere, battendo colpi sullo scafo in corrispondenza del locale siluri di poppa, ne ricevevano pronta risposta, ma nessun segno di vita invece proveniva dai locali di prora.

In mattinata, verso le 0900 giunse sul posto anche il G.A. 141, ma le condizioni del mare peggioravano ancora e, solo verso le 1800, i palombari eseguirono un tentativo di passare la prima braga di sollevamento.

Le unità minori furono costrette a salpare, per cercar ridosso ed il G.A. 141, all’ancora sopra vento per far remora all’Otaria e alle imbarcazioni dei palombari, era trattenuto in posizione dai rimorchiatori Taurus e Titanus, alla cappa ed in forza sulle macchine.

I due rimorchiatori appartenenti alla Società R.R. Panfido erano stati fatti appositamente pervenire da Venezia per cooperare alle operazioni di soccorso, a causa della momentanea indisponibilità di mezzi adeguati presso la base navale di Pola.

Taurus e Titanus rimorchiano il G.A. 141 (crediti immagine fondo Panfilo-Trevisan)

Il primo febbraio 1942 le condizioni del mare peggioravano ulteriormente ed anche il G.A. 141 fu costretto ad abbandonare la posizione.

L’Otaria continuò con difficoltà il rifornimento dell’aria fino a poco dopo le 1900, quando, a causa dei violenti colpi di mare, si strapparono le tubolature di pompaggio, interrompendo il collegamento con il Medusa, ponendo così fine alla penosa agonia dei sopravvissuti.

Il comandante dell’Otaria, Capitano di Corvetta Emilio Berengan fu costretto a prender atto della situazione e a rientrare in porto.

La burrasca continuò nei giorni 2 e 3 febbraio e solo il mattino del giorno 4 i palombari si reimmersero, constatando che dal sommergibile non proveniva più alcun segno di vita: la tragedia si era così compiuta.

La documentazione esistente non permette purtroppo un esame esauriente degli avvenimenti successivi al febbraio 1942.

Un solo documento, il foglio prot. 36008 in data 28 luglio 1943, a firma dell’Ammiraglio di Divisione Gustavo Strazzeri, chiarisce, anche se non completamente, le ultime sorti del Medusa.

In tale documento si afferma infatti che in data 15 giugno 1943 erano stati ultimati i lavori di recupero dei due tronconi del sommergibile, provvedendo Marispedal – sede all’estrazione e al riconoscimento delle salme, alla presenza di un ufficiale medico, un cappellano ed una squadra di infermieri.

Tutte le salme recuperate vennero tumulate nel cimitero civile di Pola, presso Monte Ghiro.

Non mi occupai più del Medusa, dal momento che, pur con qualche lacuna, la tragica vicenda era stata chiarita e non c’era più nulla da aggiungere.

L’argomento, però, ripreso anche da Pietro Faggioli, noto ricercatore e storico subacqueo, aveva colpito lo scrittore-giornalista triestino Pietro Spirito, influenzandolo nella stesura del suo volume “Un corpo sul fondo” edito nel 2007: il nostro saggio, infatti, veniva citato come una delle fonti di riferimento.

Il mio interesse si ridestò nuovamente a seguito della lettura dell’opera di Spirito, che pur apparentemente sotto forma di romanzo, è rappresentativa ai fini della chiarificazione delle vicende successive al 28 luglio 1943.

L’autore apporta nuove testimonianze sulle sorti del relitto, documentazione sulla sequenza temporale dell’estrazione dei corpi, sul loro riconoscimento ed il loro numero complessivo.

Tramite uno dei protagonisti del suo libro, un immaginario vecchio reduce della scuola sommergibili di Pola, di cui il Medusa faceva parte, Pietro Spirito dà voce a chi ha sostenuto che i resti del battello non sarebbero stati demoliti, come affermò la Regia Marina, ma vennero abbandonati in mare.

Ipotesi peraltro confutata dall’altro protagonista immaginario del romanzo, un giornalista, alter ego dello stesso autore.

Ai fini di una corretta documentazione, Pietro Spirito, si era immerso sul relitto assieme al triestino Mario Arena, uno dei più noti ricercatori subacquei italiani, escludendo categoricamente che si trattasse del Medusa.

Incuriosito, iniziai allora una ulteriore ricerca per capire se la vicenda nel corso degli anni avesse subito nuovi sviluppi; ne ricavai notizie sconcertanti.

 

L’ INTERROGAZIONE PARLAMENTARE E GLI SVILUPPI SUCCESSIVI

E’ riportato anche nel testo di Pietro Spirito che, a seguito della diffusione della notizia, gli onorevoli Gianni Mancuso e Andrea Del Mastro Delle Vedove presentarono alla Camera dei Deputati, il 9 maggio 2002, un’interrogazione parlamentare, in merito al recupero delle salme dei marinai del “sottomarino Medusa”, a cui nel corso della seduta n. 234 del 4.12.2002 alla Camera dei Deputati, veniva data risposta, riportata a seguito integralmente, che così esordiva:

Al Ministero della Difesa. – Per sapere – premesso che: “il giornale croato Jutarni List ha dato notizia del ritrovamento, da parte di un subacqueo al servizio del Ministero della cultura di Croazia, dei resti del sottomarino “Medusa” che, con a bordo 7 ufficiali, 8 sottufficiali e 43 marinai, venne affondato dai siluri del sottomarino inglese Thorn alle ore 14,10 del 30 gennaio 1942; il sommergibile è stato localizzato al largo di Capo Promontore, punta istriana nelle acque di Pola, ad un miglio circa dallo scoglio Porer (2): se non si ritenga di dover valutare la possibilità di recuperare le salme dei marinai caduti per restituirle, con gli onori militari che meritano, alle famiglie.” (3-00941) ( 9 maggio 2002)

Risposta del Governo:

PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per la difesa, onorevole Berselli, ha facoltà di rispondere all’interrogazione Gianni Mancuso n. 3-00941 ( vedi l’allegato A – Interrogazioni sezione 1).

FILIPPO BERSELLI, Sottosegretario di Stato per la difesa. “Signor Presidente, è opportuno specificare preliminarmente che la Marina Militare non è dotata di mezzi tecnici idonei ad operare il recupero in sicurezza di relitti o per eseguire interventi all’interno degli stessi, attività peraltro riconducibile a quella istituzionale della forza armata. Inoltre, in considerazione del totale impegno richiesto alla Marina Militare per l’assolvimento di inderogabili e sempre più rilevanti compiti in materia di difesa, sia in ambito interno che internazionale, nonché in considerazione del fatto che un’eventuale attività di recupero comporterebbe necessariamente l’utilizzo di adeguati mezzi tecnici con inevitabile assorbimento di considerevoli risorse operative e finanziarie, non si valutano possibili interventi della forza armata in attività che possano distogliere mezzi ed uomini dai primari compiti istituzionali. Al riguardo, un’operazione finanziaria finalizzata alla ricerca ed al recupero delle spoglie dei componenti l’equipaggio del sommergibile Medusa richiederebbe un prolungato e rilevante impegno di personale specializzato della Marina Militare e l’esposizione degli operatori subacquei ad elevato rischio per la propria incolumità in relazione alle impegnative condizioni ambientali in cui si sarebbero costretti ad operare. Pertanto, pur condividendo pienamente le motivazioni di ordine etico, religioso e storico rappresentate dall’onorevole interrogante, si ritiene che imprescindibili motivazioni di natura tecnico-operativa impediscono al momento la concreta attuazione di un’eventuale operazione di recupero in sicurezza delle salme dei marinai. E’ appena il caso di rappresentare poi che per tradizione immemore le navi e i sommergibili affondati sono considerati dagli uomini di mare i sepolcri più adeguati per i resti del personale militare che ne formava gli equipaggi, dovendosi osservare che l’operazione auspicata dall’onorevole interrogante rappresenterebbe un immotivato turbamento dell’eterno riposo di eroi immolatisi per la patria. Proprio per onorare la memoria di quanti sono eroicamente deceduti in mare per la difesa della patria, è stata istituita con legge 31 luglio 2002 n. 186, la giornata della memoria dei marinai scomparsi in mare la cui celebrazione è stata fissata per il giorno 12 novembre. Infine, per completezza di informazione, si osserva che nell’ultimo ventennio gli interventi effettuati dai subacquei della Marina Militare su sommergibili affondati durante il secondo conflitto mondiale hanno interessato solo i sommergibili Scirè e Veniero. Per entrambi si è provveduto prioritariamente alla occlusione delle vie di accesso ai relitti ed al recupero di alcune parti di dimensione ridotta da destinare all’allestimento di monumenti commemorativi. Solo per quanto riguarda lo Scirè si è anche proceduto al recupero dei resti di parte dell’equipaggio a seguito di atti di sciacallaggio perpetrati all’interno dello scafo del sommergibile”.

Venuti al corrente del ritrovamento, Pietro Faggioli e Giovanni Alban, quest’ultimo capo istruttore del centro sub Treviso, si erano recati a Pola ed immersi sul relitto che confermavano essere il Medusa, riconoscendolo dalle marchiature riscontrate sui motori e suffragati anche da ricordi e testimonianze di qualche anziano locale; ma lasciamo parlare direttamente i protagonisti:

Sapevamo che fuori Pola erano stati affondati ben sette sommergibili tedeschi. Perciò, quando giunse la notizia del ritrovamento di un battello molto mal ridotto e spezzato in due parti fummo quasi sicuri di aver localizzato uno degli U-Boat della prima guerra mondiale, e ci preparammo per andarlo a vedere in immersione. Acqua verde, 36 metri di profondità, visibilità quasi nulla e freddo, tanto freddo. La curiosità è molta e io scendo con Giovanni Alban sebbene non abbia l’attrezzatura adatta. Ma non resisto: appena incontro lo strato gelido dell’acqua devo risalire, dato che la mia muta da tre millimetri di spessore, non è sufficiente a proteggermi. Giovanni prosegue, accompagnato da Ernesto e, quando risale, è perplesso e mi dice: giù c’è soltanto mezzo sommergibile, la parte posteriore, quella della poppa. Siamo entrati, ma uno dei motori è Fiat, e l’altro è marcato con la sigla CRDA (3). I Tedeschi montavano motori italiani? No, non li montavano. I sommergibili tedeschi avevano motori Daimler, Man oppure Benz; alcuni anche Korting e Pichler & Co.”[…]“dalle rotondità delle lamiere è evidente che lo scafo affondato è quello di un sommergibile; su un lato c’è uno squarcio e possiamo vedere due motori, disposti in parallelo. Le valvole e i bilancieri sono evidenti, vediamo delle scritte […] Nel pomeriggio, giriamo le osterie e incontriamo un vecchio che ci conferma che quello che abbiamo visto è un pezzo del sommergibile Medusa […] Così il giorno seguente facciamo un altra immersione […] la visibilità è come al solito molto scarsa; vediamo quella che sembra la piccola piattaforma di un cannone, oppure un grosso boccaporto chiuso; sui lati dello scafo ci sono delle feritoie per l’espulsione dell’acqua dalle casse durante le emersioni. Ovunque nel fango, dentro lo scafo proietti da 102 millimetri. Quello che rimane del sommergibile ha una lunghezza di circa 25 metri e un diametro di metri 5,60. I due motori sono molto simili e uno ha certamente il marchio della Fiat. Vediamo anche un motore elettrico che ci sembra marcato Skoda.

All. 1 – I resti martoriati della poppa del Medusa (crediti immagini rivista “SUB” maggio 2004)

L’articolo, apparso sul mensile “Sub “ del maggio 2004 e riportato anche dal sito Internet del Centro Sub Treviso  corredato di una ripresa fotografica di parte delle testate del motore termico di dritta (v. All. n. 1 ) con evidenti i particolari della distribuzione, era stato scritto sulla falsariga del nostro saggio pubblicato sul Bollettino d’Archivio USMM, del dicembre 1994, affermando con certezza l’avvenuta identificazione del sommergibile.

Faggioli, in una nota al testo, porgeva inoltre ringraziamenti al sottoscritto ed a Pierpaolo Zagnoni per la storia del Medusa senza, peraltro, averci messo preventivamente al corrente della pubblicazione nonchè del suo “riconoscimento” del relitto.

L’articolo era corredato dalle note fotografie del Medusa (del precedente conflitto n.d.a.) (v. All. n. 2), sollevato dal pontone Jugoslavo Velj Joze e depositato sulla massicciata della diga di Punta Sabbioni, a Venezia nel 1956.

La didascalia così recitava: “il recupero della parte prodiera del più recente dei Medusa, nel cui interno c’erano ancora i corpi dei marinai morti. Per un errore di manovra, la poppa scivolò, invece in mare, e lì rimase.

Il sito Internet X Grupsom-sommergibili mediterranei dava ampio risalto alla identificazione effettuata da Faggioli e Alban riportandone lo scritto e pure l’enciclopedia informatica Wikipedia, avvalorava questa versione dei fatti.

Alla voce: – sommergibile Medusa, descrivendone le caratteristiche tecniche e la storia operativa, tutt’ora si può leggere che:

Verso la metà del 1943 ebbero inizio le operazioni di recupero del relitto, che fu sezionato in due tronconi: le due parti furono portate a galla il 15 giugno e fu effettuato il recupero dei corpi. La parte prodiera fu smantellata, mentre il troncone poppiero, caricato anch’esso su di un pontone, finì nuovamente in mare e affondò poco fuori del porto di Pola a causa di un errore. La sezione poppiera del Medusa (lunga circa 25 metri) giace su un fondale di circa 40 metri, nei pressi di Punta Verudela.

All. n. 2 -Le fotografie pubblicate dalla rivista ” SUB” del maggio 2004

La sezione Marinai d’Italia di Pordenone, a seguito di queste notizie, aveva meritoriamente fatto apporre una targa commemorativa in bronzo al relitto, identificato come quello del Medusa.

Mi sorprende che la Marina Militare non sia venuta a conoscenza dell’interrogazione parlamentare, e senza ombra di dubbio l’Ufficio Storico non venne interpellato dal Sottosegretario alla Difesa, per l’elaborazione di tale risposta.

I fatti esposti mi costringono a riprendere l’argomento e fare alcune considerazioni.

Con certezza ambedue i tronconi del Medusa vennero resi a terra. Oltre al foglio prot. 36008 del 28 luglio 1943, a firma dell’ammiraglio Strazzeri, che lo attesta, Pietro Spirito riesce a reperire i registri delle sepolture del cimitero di Monte Ghiro, dell’estate 1943, da cui si evince la sequenza della tumulazione delle salme estratte dal sommergibile, che avvenne con le seguenti modalità (4):

– 12 giugno 1943, alle 11.30 tre salme identificate (fra queste, quella del silurista Arturo Capra, uno dei 14 sopravvissuti del locale siluri di poppa) 20 ignoti, più resti di salme già recuperate.
– 17 giugno 1943: tre salme identificate più 15 ignoti.
– 20 giugno 1943: una salma identificata più i resti di quattro ignoti.
– 15 luglio 1943: resti di salme.
– 28 agosto 1943: un teschio.

In totale vennero estratte le salme di almeno 46 dei 53 membri dell’equipaggio rimasti all’interno dello scafo, più un numero non ben definito di resti irriconoscibili.

Considerando che tutto ciò che si trovava nelle vicinanze del luogo d’impatto con il siluro venne devastato dall’esplosione e che molti frammenti possono essere fuoriusciti dallo squarcio nel corso dell’affondamento, è ragionevole sostenere che dal relitto vennero estratti tutti i resti del personale ancora presente a bordo.

E’ assolutamente inverosimile che questa operazione possa essere stata effettuata, anche parzialmente in mare, con il troncone in condizioni di precaria sospensione, visti i tempi necessari alla rimozione dei detriti, soprattutto nei locali allagati .

Non sarebbe stato opportuno né necessario far incorrere il personale addetto, non solo prettamente marittimo, ad inutili rischi, aggravati anche a causa dei possibili e frequenti attacchi aerei.

Non è però trascurabile la possibilità che i due tronconi depositati in banchina dell’Arsenale potessero essere stati successivamente riaffondati a mare.

Nei giorni seguenti l’otto settembre 1943, le truppe germaniche occuparono la piazzaforte di Pola, che divenne un’importante base della Kriegsmarine.

Quelle due sezioni del Medusa impegnavano una banchina o un’area operativa e la soluzione più rapida per liberarla avrebbe potuto essere quella di sollevare i tronconi da terra con un pontone per riaffondarli fuori le dighe foranee, dopo l’asportazione di tutto il materiale che avrebbe potuto essere reimpiegato.

Ulteriori testimonianze apportate nuovamente da Pietro Spirito sollevano altri interrogativi: oltre a due testimoni, Renato Mancini e Germano Germanis, che da ragazzi vivevano a Pola e ricordano il relitto del Medusa coperto da grandi teli bianchi sulla banchina dell’Arsenale, Spirito incontra casualmente, l’anziano collega Italo Soncini, decano dei giornalisti triestini e, quando cita all’amico la storia del Medusa, riferisce che “….fu come aprire un baule stracolmo di ricordi ”.

Soncini conosce la vicenda nei minimi particolari, sua fonte d’informazione era stato il suocero, il capitano Giovanni Vascotto che aveva diretto le operazioni di recupero, coordinando le sinergie dei palombari e del pontone G.A. 141, nel gennaio 1942.

Soncini, che non mi è ancora ben chiaro quale ruolo allora avesse ricoperto, nel maggio 1945 si recò in missione nella città di Pola, occupata dai titini, per prelevare il capitano Vascotto, sua moglie e la figlia del capitano, che sposerà successivamente.

Nell’occasione ebbe modo di vedere in un capannone dell’arsenale la sola parte prodiera del Medusa con la torretta, ma non ricorda di aver visto la sezione poppiera. Dove era andata a finire?

Il relitto di Verudella poteva essere veramente il troncone del nostro classe “600”? E se non era quello, a quale altro battello poteva appartenere? Proverò a dare una risposta a questi quesiti.

Nell’ottobre 1918, pochi giorni prima della firma dell’armistizio del’11 novembre, in previsione della imminente richiesta di pace separata da parte dell’Austria-Ungheria, l’ammiragliato tedesco aveva impartito l’ordine che tutti i battelli del Mediterraneo, in grado di prendere il mare, rientrassero in assetto di combattimento alla base navale di Kiel, da dove, agli inizi del conflitto, si erano trasferiti dopo lunga navigazione, dimostrando le eccellenti qualità nautiche dei mezzi.

Il Kapitän zur See (5) Theodor Püllen, comandante della flotta sottomarina del Mediterraneo che comprendeva anche la Deutsche Unterseebootsflottille di Pola, aveva disposto che i sommergibili che non si trovavano nelle condizioni di affrontare questo lungo viaggio venissero distrutti, per evitarne la cattura.

La flottiglia, aveva avuto in forza un numero massimo di 33 unità, ridotto a 22 nell’ottobre 1918 , suddivise fra le basi di Pola e quella di Cattaro.

In conseguenza di questi ordini, dodici sommergibili rientrarono in Germania, sette battelli vennero portati fuori le dighe foranee di Pola e autoaffondati dagli equipaggi, alcuni fatti saltare con la dinamite; altri tre vennero affondati in mare con le medesime modalità a Fiume, Trieste ed alle Bocche di Cattaro.

Contattai Mario Arena che, con gran disponibilità, mi duplicò il filmato molto ricco di particolari, da lui girato in precedenza sul relitto. Mario sosteneva da tempo che il troncone appartenesse ad uno di questi battelli; anche Spirito concordava con la sua opinione e pure Pietro Faggioli, come da lui stesso dichiarato, ne aveva avuto qualche sospetto.

 

PERCHE’ IL RELITTO DI POLA NON PUO’ ESSERE IL MEDUSA

Faggioli afferma di aver riconosciuto le macchine del relitto, l’una Fiat, l’altra CRDA, dalle loro marchiature, ma questo non è possibile.

Innanzitutto, per palesi motivi, nessuna unità navale è mai stata dotata di unità principali di propulsione diseguali; ma come era sorto l’equivoco?

Ai fini dell’identificazione del relitto, Faggioli si era ben documentato, consultando attentamente l’opera più autorevole e completa sull’argomento, la monografia in due tomi:“Sommergibili Italiani” di Alessandro Turrini e Ottorino Ottone Miozzi, edita nel 1999 dall’Ufficio Storico della Marina Militare, non valutandone correttamente un refuso del testo, sfuggito anche al revisore dell’opera, il cui oggetto sarebbe stato addotto come prova certa dell’identificazione.

All. n. 3 – Estratto monografia A. Turrini O. Miozzi: I sommergibili Italiani, pag. 596

Le sette unità della classe” 600 “ serie Argonauta erano state costruite in vari stabilimenti. Il tipo di motorizzazione, pur sempre della stessa potenza, era stato fornito da case costruttrici diverse: sui sommergibili costruiti a Taranto, il Serpente ed il Salpa, vennero imbarcati motori termici Tosi a sei cilindri e motori elettrici Marelli, mentre sui battelli costruiti a La Spezia, lo Jalea ed il Jantina e su quelli costruiti a Monfalcone, Argonauta e Fisalia, erano imbarcati motori termici Fiat e motori elettrici CRDA.

Il solo Medusa, anch’esso costruito a Monfalcone, ebbe una motorizzazione diversa dai precedenti: motori elettrici CRDA e motori termici CRDA del tipo S.T.T. 4Q. 38, a quattro cilindri, due tempi, non reversibili, costruiti dalla “Fabbrica Macchine Sant’Andrea” dello Stabilimento Tecnico Triestino (S.T.T.), appena acquisito dal gruppo dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico.

Nella monografia sopra citata, a pagina 596, per un evidente refuso tipografico, si legge erroneamente che sul Medusa erano imbarcati un motore Fiat ed un motore CRDA (v. All. n. 3), come Faggioli sostiene esser stato visto e constatato.

Questa sarebbe l’unica e conclusiva prova addotta ai fini dell’identificazione.

A comprova di quanto affermo, circa l’effettiva motorizzazione del Medusa, allego le relative pagine della copia n. 32 della monografia riservata, dei sommergibili classe Argonauta, edita nel 1933 a cura degli stessi Cantieri Riuniti dell’Adriatico-cantiere di Monfalcone, gentilmente fornitami dallo stesso ingegner Alessandro Turrini.

Dalle immagini di Giovanni Alban, si notano molto bene i bilancieri della distribuzione, tre per ogni cilindro, ma non il numero complessivo delle testate.

Da una splendida foto di un operatore tedesco, Norbert Roller, reperibile anche in Internet (6), si distinguono molto chiaramente, anche nei particolari, i bilancieri di cinque testate, solo parzialmente la sesta, non compresa completamente nell’inquadratura (v. All. 7).

All. 7 – Vista sei cilindri motore sinistro (crediti immagine Norbert Roller)

Nel filmato di Mario Arena una carrellata sui motori riprende interamente tutte e sei le testate nei loro particolari; le macchine del Medusa, gli S.T.T. 4Q. 38, avevano solamente quattro cilindri.

In primo piano, nella foto di Norbert Roller, è ben riconoscibile la leva dell’immissione d’aria dell’avviamento, che si trovava a proravia, lato volano; è quindi la macchina di sinistra, mentre quella di Alban è quella di dritta.

Entrambe le foto sono state infatti scattate dalla spaccatura che delimita il termine del troncone, con spalle rivolte verso prora.

Non è corretta nemmeno l’affermazione di chi, in altri siti, ha affermato che quel particolare tipo di distribuzione sia caratteristica dei motori del Medusa.

I tre bilancieri per cilindro caratterizzano infatti tutti i motori ad iniezione pneumatica dell’epoca; l’iniezione meccanica, impiegata nei motori più recenti, verrà sperimentata e adottata dalla Man di Augsburg solamente a partire dal 1931.

Solo da allora non si renderà così più necessario l’impiego del terzo bilanciere, quello centrale, utilizzato per l’apertura della valvola di polverizzazione in fase di avviamento.

 

 


Note

  1. Crediti immagine di copertina USMM.
  2. Posizione originaria dell’affondamento, non quella del relitto in oggetto, a circa 7 miglia dalla precedente.
  3. L’inciso è stato evidenziato in grassetto dall’Autore dell’articolo e non è presente nel testo originale (n.d.r.).
  4. Pietro Spirito, Un corpo sul fondo, pag. 207.
  5. Grado equivalente a Capitano di Vascello.
  6. V.  www.kacr.de/kroatien2002/medusa2002.htm.

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