Le sanzioni, la politica degli stretti e la politica delle cannoniere cosa hanno in comune? L’intervento navale.
Muovendo da questa premessa è possibile notare come negli ultimi anni l’attenzione dell’opinione pubblica si sia concentrata soprattutto sul vicino oriente, sullo stretto di Hormuz, sul sempre più aperto scontro con l’Iran, sulla guerra civile in Yemen, sulla pirateria somala: tutti questi conflitti, apparentemente indipendenti l’uno dall’altro, devono in realtà considerarsi in una prospettiva unitaria che consente di collegarli ad un’appendice “caraibica” che, in questi giorni, sta destando non poco allarme a livello internazionale.
Intendiamo riferirci, naturalmente, al preannunciato arrivo in Venezuela di cinque petroliere iraniane (Fortune, Forest, Petunia, Faxon, Clavel) che dovranno rifornire il Paese sudamericano del carburante di cui necessita disperatamente.
In merito è bene ricordare che le operazioni che interessano quel tratto di mare ricadono sotto la responsabilità dello US Southern Command che, dallo scorso aprile, coordina nei Caraibi una forza di interdizione multinazionale, con una partecipazione della US Navy che non si vedeva dai tempi della crisi dei missili cubana.
Non più solo la Coast Guard e le forze ad essa collegate, come la DEA, ma unità maggiori, statunitensi ed alleate, per il contrasto al narco-terrorismo, obbiettivo che ha avuto un insperato consenso ed il riconoscimento della maggior parte dei paesi della regione (22 su 26).
Da aprile la US Navy sta pertanto pattugliando il mar dei Caraibi con unità aeronavali di prima linea, operazione giustificata non solo da finalità antidroga, ma anche dalla lotta al terrorismo, volta al contenimento del Venezuela quale presunto “santuario” di cellule mediorientali, e quale deterrente nei confronti di una possibile escalation interna ad un Paese che, allo stato, presenta due presidenti e due governi.
Una deriva costituzionale, quella che ha interessato il Venezuela (sempre più sull’orlo della guerra civile), aggravata da una crisi non solo economica ma anche alimentare, energetica ed idrica, che non ha uguali neppure in Africa.
Nessun intervento concreto sinora, ma un monito dopo che gli Stati Uniti hanno fornito un chiaro appoggio al Governo eletto. Il Venezuela, oggi di Maduro ieri di Chavez, ha da decenni strettissimi rapporti con l’Iran, la Siria ed in generale con le repubbliche islamiche, tanto da essere considerato uno dei santuari della jihad alla luce dei suoi presunti legami con il terrorismo di marca islamica.
La crisi economica e sociale che lo affligge riguarda anche i carburanti: il paese infatti non solo è paralizzato da un formale lockdown dovuto alla pandemia da Covid-19, ma lo è praticamente – e soprattutto – per la mancanza di carburante pur essendo, ormai solo teoricamente, il 5° produttore di petrolio ed il primo, sempre teoricamente, raffinatore dell’America Latina.
La missione della US Navy nei caraibi non è un blocco navale dichiarato, ma è una missione di prevenzione e controllo sui traffici di droga collegati al terrorismo, che hanno principale origine in Colombia e Venezuela, dove il governo è stato accusato di stabili collegamenti con il narcotraffico e con cellule mediorientali consolidate nel Paese.
Il programma di vigilanza e pattugliamento non coinvolge solo gli Stati Uniti – che comunque impegnano la maggioranza dei mezzi navali ed aerei, oggi incrementati con il diretto coinvolgimento della US Navy – ma come già evidenziato vede la partecipazione, in varia scala, di 22 paesi, i più impegnati dei quali,
Olanda e Regno Unito, con la concessione di basi, logistica e l’intervento delle rispettive Marine con spiegamento di mezzi aeronavali.
Le sanzioni contro l’Iran riguardano il nucleare ma anche il commercio di idrocarburi dello stesso e le non formali ma sostanziali, misure contro il Venezuela riguardano la sua principale industria, quella petrolifera, colpendo persino gli aiuti che per anni ha ricevuto dalla Russia (a causa delle sanzioni, per il momento economiche, la russa RosNeft ha dovuto abbandonare il mercato venezuelano, dove operava non solo come produttore ma, soprattutto, come trader).
Chi corre in soccorso del Venezuela?
L’Iran: una doppia sfida, che interessa di fatto due zone di controllo ed interdizione selettiva dei traffici marittimi, lo stretto di Hormuz ed i Caraibi: una diversione ma anche un’escalation impensabile sino a poco tempo addietro, un’aperta duplice sfida agli Stati Uniti ed alla loro potenza navale.
Una doppia sfida, che è sfociata anche nell’aperta dichiarazione ed identificazione delle petroliere inviate a rifornire il Venezuela (e puntellare il regime di Maduro) con prodotti raffinati, e un dilemma per gli Stati Uniti (e per alcuni degli alleati, in primis il Regno Unito): applicare anche nei Caraibi le regole seguite nel vicino oriente, con il sequestro di navi e carichi, o mantenere le caratteristiche di controllo del narco-terrorismo – senza pertanto rompere il consenso politico e senza coinvolgere, in un gioco troppo grande, i partner regionali – “limitandosi” al controllo ed eventuale blocco dei carichi in uscita.
Un dilemma ed uno smacco per Stati Uniti e Regno Unito che non sono riusciti a bloccare il traffico di carburante all’origine o a Gibilterra, dove disponevano di altri strumenti, del tutto indipendenti, di controllo e di interdizione.
Un’occasione sfruttata dall’Iran a proprio favore, dopo un attento calcolo delle possibili difficoltà politiche che un intervento con le premesse attuali avrebbe creato agli USA, ma anche un evento mediatico che aiuterà il governo venezuelano ad allontanare le ombre generate dal sinistro avvenuto proprio nello stesso braccio di mare, nei giorni precedenti a questa “mobilitazione” navale (1).
Uno scenario indefinito in cui tutte le parti coinvolte hanno cercato di ridimensionare il gravissimo incidente navale, dai risvolti poco chiari e non certo esempio di perizia marinaresca, che ha coinvolto la RCGS Resolute e il pattugliatore venezuelano Naiguatà che ha portato all’affondamento della nave militare impegnata nel tentativo di abbordare la nave da crociera battente bandiera portoghese (ma di proprietà tedesca) in transito verso Curaçao e che può, forse, inquadrarsi come un
maldestro tentativo di dimostrazione di forza da parte del regime venezuelano in previsione del pattugliamento internazionale, inteso come ostile.
Uno scenario che peraltro ha appena registrato un’ulteriore escalation, al limite della provocazione, con la vistosa scorta aeronavale fornita dall’Aviazione e dalla Marina venezuelana, da valutarsi se in acque internazionali, alla prima petroliera – la Fortune – arrivata con i preziosi rifornimenti iraniani di carburante.
Mentre, quasi cinquant’anni fa, si trattava il tema, reale, della possibile “sovietizzazione” dei Caraibi, oggi si pone, forse in scala ridotta, ma politicamente e mediaticamente più rilevante, la questione della “iranizzazione” dei Caraibi, la sfida portata dal radicalismo iraniano alle porte di casa degli Stati Uniti: Hormuz come i Caraibi, a ruoli praticamente invertiti.
Una situazione tesa, densa di incognite, che riserverà ancora molte sorprese, una sfida che Trump non potrà accettare e reggere passivamente e che viene illustrata, con i suoi precedenti operativi e storici, nell’articolo di Ernesto Estevez Leon “La crisis de los tanqueros“, che ci fornisce una visione e valutazione del tema “dall’interno“.
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