I tipi Leahy e Belknap costituirono agli inizi degli anni 60 il primo nucleo di moderni incrociatori lanciamissili, segnarono un’epoca ed i loro concetti costruttivi influenzarono moltissimo la costruzione del Vittorio Veneto le cui sovrastrutture – originalmente un’evoluzione dei Doria, con un tentativo di adottare fumaioli con

USS Leahy (Crediti U.S. Navy)

deflettori come allora di moda – vennero completamente ridisegnate, adottando tra l’altro la stessa soluzione “macks” (mast+stacks) che caratterizzò le ultime costruzioni Italiane con motrici a vapore.

A fine anni 60 ed inizi anni 70 la Marina Militare Italiana attraversava una gravissima crisi, con la necessità impellente di rinnovare la linea e la mancanza di fondi per un processo così radicale: la legge navale non era neppure un’ipotesi ma la MMI stava già studiando quali potevano essere le “nuove” navi, mentre da parte loro i cantieri dovevano pensare (finalmente) ad una rivoluzione costruttiva.

Una rivoluzione che doveva anche riguardare i materiali: la costruzione dei Toti e delle fregate della classe Alpino, così come la necessità di adeguare le nuove unità alla guerra NBC (nucleare, biologica e chimica n.d.r.), avevano evidenziato gravi carenze nelle produzioni nazionali tanto di alcune componenti e macchine quanto di alcuni tipi di acciaio e di leghe leggere, con molti dubbi su queste ultime.

Poco si sa – da parte del pubblico – sul progetto, più volte rimaneggiato delle “fregate veloci da 2400T”, le future Lupo, che contrariamente a quanto si pensa non erano state progettate dai cantieri come l’evoluzione della classe Alpino: si trattava delle prime unità pensate ed inizialmente promosse, come unità squisitamente d’attacco, progettate intorno al sistema missilistico Otomat.

Il mercato delle marine emergenti era dominato dalla richiesta di unità di attacco, ed i Cantieri Navali del Tirreno Riuniti che affrontavano una durissima crisi, che

Il progetto contrattuale della “Fregata missilistica veloce” da 2400 t: profilo e pianta del 1973 (Archivio Gian Carlo Poddighe)

portò poi alla confluenza nei CNR, cercarono di inserirsi nel settore con la novità di una unità di altura, con capacità ogni tempo. Nella proposta cercarono di coinvolgere anche la MMI, consci che per essere credibile un prodotto deve prima di tutto essere adottato dalla “Marina di casa”.

Nella stesura di questo progetto e nel programma che iniziò prima della legge navale, per la prima volta nel dopoguerra non si parlava di polivalenza e, stranamente, si abbandonava il concetto  – che era ormai la caratteristica peculiare delle unità italiane – della componente ad ala rotante imbarcata. Riprendendo un concetto, che non era stato né molto fortunato né molto curato, dei tipi Intrepido, a poppa delle nuove fregate doveva semplicemente essere configurata una piattaforma di appontaggio, con limitatissime attrezzature (solo eventuale rifornimento di un elicottero in operazioni, che comunque non era in assegnazione alla nave).

Otre a quello delle unità di attacco si stava peraltro profilando anche un mercato internazionale – in espansione – che richiedeva la sostituzione delle unità residuate dalla Seconda guerra mondiale cedute a suo tempo in conto MDAP (Mutual Defense Assistance Program), o di quelle costruite immediatamente dopo, con un’ottica di relativa polivalenza (nella polivanza era certamente ricompresa la dotazione elicotteristica od al meno sistemazioni di volo complete).

Si cominciò, con poco entusiasmo, a studiare per l’esportazione una versione dotata persino di un piccolo hangar, riprendendo in qualche modo la soluzione della classe Alpino.

Tra i progettisti (Marina e Cantiere) si accese un aspro confronto, sia riguardo alla necessità che non si trattasse solo di un’unità di attacco di elevato dislocamento sia riguardo agli esponenti di peso, per mantenere il dislocamento entro le 2400 T ed assicurare comunque una più vasta serie di missioni e sempre un’elevata velocità continuativa.

Mentre la soluzione tradizionale, più economica in termini di attrezzature ed esperienze acquisite, faceva propendere verso la classica soluzione con scafo in acciaio, sovrastrutture in lega (generale presso tutte le marine), alcuni giovani progettisti, rendendosi conto che alcuni materiali e nuove soluzioni per l’industria automobilistica potevano anche essere adottati in campo navale, spingevano per una costruzione integralmente realizzata con acciai speciali.

Nel pieno di questa diatriba e nelle aspettative di una legge navale che finalmente era stata formulata e permetteva varare un programma pluriennale e di un certo

USS John F. Kennedy (CVA-67) nel dicembre 1968 (Crediti U.S. Navy National Museum of Naval Aviation photo No. 1996.488.128.004)

respiro, nella notte del 22 novembre 1975, al largo delle coste siciliane si verificò una collisione tra l’incrociatore statunitense Belknap e la portaerei JF Kennedy.

Un incidente le cui analisi avrebbero avuto conseguenze immediate sui programmi navali italiani.

Purtroppo uno dei ripetuti incidenti che in ogni Marina hanno avuto protagoniste le portaerei, incidenti comuni quando un convoglio od un gruppo navale cambia rotta e le navi di scorta devono ricostituire lo schermo protettivo, anche con manovre che le portano ad incrociare le rotte di altre unità della formazione.

Nemmeno la MMI ne è rimasta indenne, basta ricordare la collisione tra Etna e Castore. Si trattava di una normale attività di una Task Force USA in trasferimento in acque internazionali. Durante un cambio di rotta il Belknap, stando alla ricostruzione dei fatti, avrebbe dovuto scadere di poppa, defilando a lato della portaerei.

E’ facile comprendere come manovre già rischiose di giorno, per la velocità e le distanze minime, diventino ancor più pericolose di notte, con navi totalmente oscurate.

Il cambio di rotta pare fosse motivato dalle operazioni di volo in corso sulla portaerei Kennedy, che andava a mettersi con la prua al vento.

Dell’incidente si tramandano due versioni: una, immediata, diffusa dalla stampa, ed una, più verosimile, risultante dalle visite alle unità. Dissimili, anche nella indicazione del corso della nave, una attribuisce l’impatto allo “sponson” della pista angolata, l’altra ad un elevatore velivoli, in ambedue i casi protuberanze notevoli dello scafo.

Indipendentemente dall’origine, importano la dinamica e le conseguenze: quando avvenne l’impatto per il defilamento troppo ravvicinato del Belknap, la protuberanza assunse letteralmente il ruolo di un apriscatole in una latta di conserva: tagliò completamente le sovrastrutture di alluminio, all’altezza della prima tuga, compresi i “maks” (i complessi albero/fumaiolo), i condotti di scarico delle caldaie rimasero allo scoperto e furono uno degli inneschi dell’incendio.

Le operazioni a bordo, durante l’evoluzione della portaerei, comportavano anche il trasferimento dall’hangar al ponte di volo dei velivoli e, secondo l’altra versione, disgrazia volle che in concomitanza con le evoluzioni delle navi uno degli elevatori fosse in posizione bassa, avendo appena ricevuto un Phantom, già rifornito, per trasferirlo sul ponte di volo, con l’inevitabile sversamento di combustibile avio dal velivolo, caduto sul Belknap, attizzando un furioso incendio.

Le sovrastrutture del Belknap erano in lega leggera e non solo l’alluminio fonde a relativamente basse temperature, intorno ai 600 gradi, ma di fronte ad opportuno innesco brucia a sua volta, generando temperature superiori a 2000 °C (è la proprietà, per esempio, ben sfruttata per saldare in loco, testa a testa, le rotaie ferroviarie).

L’ innesco non fu solo l’alta temperatura dell‘incendio, ma la propagazione dello stesso alle munizioni di pronto impiego: un inferno di fuoco ad altissima temperatura inframezzato da esplosioni e schegge, che anche nel breve tempo del contatto danneggiò, anche se non gravemente, la portaerei.

La combustione dell’alluminio è incontenibile con i normali mezzi, tra cui l’acqua, ed a poco servirono gli sforzi delle squadre antincendio di bordo, che comunque intervennero tempestivamente ed efficacemente.

Le operazioni di soccorso furono un esempio da manuale, il personale fu tempestivamente evacuato, salvo quello direttamente impegnato nelle squadre antincendio. Altre due unità di scorta, il caccia lanciamissili Claude V. Ricketts ed il caccia Fram Bordelon, si affiancarono ed imbarcarono il personale da evacuare mentre le loro squadre antincendio attaccavano le parti centrali del Belknap che il suo equipaggio non poteva raggiungere.

Le misure di lotta antincendio, con il contenimento dello stesso sia da parte delle squadre rimaste a bordo sia delle unità a lato con il raffreddamento della parte centrale, si rivelarono efficaci ed un’esperienza preziosa, salvaguardando il deposito missili ed i deposti munizioni, tanto prodieri quanto poppieri.

La lezione fondamentale fu che malgrado le elevatissime temperature in coperta, con la letterale fusione delle tughe, il ponte stesso di coperta in acciaio riuscì a contenere il propagarsi dell’incendio, cosi come la compartimentazione sottostante in acciaio, ed i locali dell’apparato motore, anche nelle zone sottostanti l’incendio, risultarono accessibili e relativamente poco danneggiati.

Altrettanto positiva la constatazione che malgrado i danni, in primo luogo alle caldaie, con la conseguente mancanza di vapore, sull’ unità venne mantenuta l’alimentazione elettrica di emergenza che permise il funzionamento delle pompe, sia antincendio che di esaurimento.

L’immediata reazione del personale di bordo ed il rapido e prolungato intervento dimostrarono quanto sia importante ed efficace il costante addestramento degli equipaggi, in condizioni reali di fuoco, cominciando presso i centri a terra.

Furono attivati tutti i protocolli della US Navy, per la sicurezza delle unità e del munizionamento imbarcato, ma non i protocolli NATO, e non ci fu alcun coinvolgimento né di unità alleate né delle autorità italiane, salvo evidentemente le opportune allerte.

Per la cronaca il bilancio delle vittime fu minore di quanto mai si sarebbe potuto sperare (sette uomini del Belknap ed uno della Kennedy) e la nave non perse stabilità.

Lo USS Belknap a rimorchio dello USS Bordelon (Crediti USS Belknap Association)

Dopo due ore l’incendio era sotto controllo ed incominciarono le operazioni di presa a rimorchio e traino di quello che ormai era solamente un relitto.

Il personale evacuato dal Belknap fu poi trasferito sulla nave portamunizioni che serviva nella Sesta Flotta del mediterraneo, che provvide anche ad imbarcare il munizionamento sbarcato dal relitto dell’incrociatore ed a rimpatriare immediatamente personale e materiali direttamente negli Stati Uniti.

Appena si diffuse la notizia dell’incidente, la MMI si mobilitò immediatamente per offrire assistenza e concordare un porto su cui dirigere con il Belknap, ipotizzando a distanza e di primo acchito che l’unità gravemente danneggiata potesse aver bisogno di riparazioni immediate in cantieri o arsenali nazionali.

Tra gli ufficiali italiani che intervennero ce n’erano alcuni allora impegnati nella progettazione delle nuove unità: quando fu possibile ispezionare (termine molto eufemistico) il relitto ci si trovò di fronte solo, per oltre metà della nave a poppavia della plancia, ad un solo ammasso di metallo fuso. Sarebbe stata difficile anche la semplice rimozione dei detriti di questa parte di nave.

Si pensò che la nave sarebbe stata dichiarata perdita totale ed avviata, magari ancora in Mediterraneo, alla demolizione.

L’orgoglio della US Navy non permetteva di radiare una nave in tal modo e la decisione fu che, malgrado le condizioni in cui era ridotto il Belknap, dopo la messa in sicurezza con lo sbarco delle munizioni ancora rimaste nei depositi  – che furono preservati dall’ incendio – e la sigillatura dei ponti, venisse trasferito a rimorchio sino agli Stati Uniti, dove, dopo una lunga sosta a Filadelfia, in attesa di valutarne la convenienza, venne ricostruito presso l’arsenale di Norfolk.

Per inciso, e per quello che costituì anni dopo fonte di una delle solite sterili polemiche all’italiana, l’operazione di messa in sicurezza – condotta solo da mezzi e personale statunitensi – riguardava anche l’armamento nucleare imbarcato. L’incidente permise anche di verificare, in condizioni reali purtroppo, che le procedure di sicurezza e di stoccaggio di tutto il munizionamento erano corrette ed erano state efficaci.

Per quanto riguarda il ritorno dello scafo negli Stati Uniti ed il suo reimpiego, la definizione di “riparazione” riguarda pure dichiarazioni ed atti formali: si trattò in effetti di una nuova costruzione, atipica, da adibire a nave sede di comando complesso (su cui venne sperimentata l’adozione dell’acciaio per le sovrastrutture). Una ricostruzione protrattasi a

Il Belknap (CG 26), ricostruito come nave comando in una foto del 1992 (Crediti JO1 James Slater. ID- DN-ST-92-09889 via Navsource)

lungo, con il rientro in servizio nei primi anni ’80, partecipando ad eventi importanti come nave sede comando e di rappresentanza, per essere poi radiata nel 1995 ed affondata come nave bersaglio nel 1998.

Il Belknap era stato costruito, e bene come l’incidente comprovò, secondo i dettami originali di Gibs&Cox, che però non potevano per la loro epoca prendere in considerazione gli effetti di combustione di materiali inizialmente considerati ignifughi, come l’alluminio.

Torniamo però alle conseguenze pratiche, tecniche, dell’incendio: la MMI, di fronte ad un ripensamento mondiale sulle tecniche di costruzione e la scelta di nuovi materiali, era già pronta: per le nuove fregate da 2400 T l’adattamento fu rapidissimo e nel passaggio si modificò il disegno della parte poppiera, delle tughe e del ponte di coperta, inserendo un ricovero per l’elicottero che divenne componente imbarcata e la versione per esportazione – più completa ed sotto certi aspetti più evoluta della versione originale italiana – venne offerta da subito in acciaio.

La concorrenza diretta erano le fregate inglesi Type 21, classe Amazon, che furono surclassate dalle Lupo per esportazione, riprodotte in ben 14 esemplari (sarebbero state 20 se motivazioni politiche non avessero portato alla cancellazione dell’ordine per l’Argentina).

La scelta oculata della MMI ricevette la controprova con la guerra delle Falkland/Malvine: la perdita di 3 delle navi colpite dagli argentini, un Type 42, lo Sheffield, e due Type 21, è da imputarsi a queste modalità costruttive ed ai materiali impiegati.

Anche la US Navy prese la decisione di passare a sovrastrutture interamente in acciaio.

La decisione della US NAVY fu timida, di applicazione altalenante, ancora più nell’attualità, con le LCS e con i trasporti veloci che hanno trascurato l’esperienza acquisita e riportato i rischi praticamente indietro di oltre 30 anni, con le prevedibili stesse conseguenze, come le perdite di ben tre unità nel corso della guerra dello Yemen ha nuovamente dimostrato.

L’incendio dell’HMS Sheffield dopo essere stato colpito da un Exocet nel 1982 alle Falkland (Crediti The Guardian)

In merito all’ incidente del Belknap un’appendice tutta italiana.

È curioso ricordare a margine come, “inspiegabilmente” dopo una quindicina d’ anni, nel maggio 1989, l’incidente del Belknap sia assurto a caso esemplare nella polemica contro le basi in Italia e la presenza di armi nucleari sul nostro territorio.

Il BELKNAP imbarcava armi nucleari, come testate dei missili e cariche AS degli ASROC. 

Come procedura codificata il contrammiraglio Eugene Carroll, che comandava la Task Force, informò i vertici della US Navy della possibilità che eventuali armi nucleari a bordo dell’incrociatore potessero essere interessate dall’ incendio e dalle esplosioni avvenute in sequenza: in realtà non basta un incendio per provocare lo scoppio di cariche nucleari ed anche il rischio di contaminazione e radiazioni in quel contesto sarebbe stato contenuto.

Le operazioni di messa in sicurezza del relitto, con il trasferimento di munizioni ed eventuali cariche direttamente su un trasporto munizioni per l’immediato rimpatrio negli Stati Uniti, evitò che ordigni nucleari non previsti transitassero sul territorio italiano.

L’ incidente venne rispolverato in un rapporto dell’Institute for Policy Studies e di Greenpeace, che asseriva come gli Stati Uniti avessero sempre avuto la politica di non confermare né smentire la presenza di armi atomiche su unità navali, pur evidenziando che “nell’ incidente siciliano non furono danneggiate armi nucleari”.

Nei documenti ufficiali, come quelli redatti dal Pentagono nel 1981 e nel 1986, quello del Belknap non è stato mai considerato come un incidente nucleare, ma solo un semplice incendio, ma questo non fu sufficiente per evitare la strumentalizzazione da parte di un noto quotidiano italiano, da sempre collegato a Greenpeace.

Gian Carlo Poddighe


Note

  1. Lo scatto scelto come immagine di copertina ritrae lo USS Belknap ormeggiato nel porto di Napoli nel dicembre del 1975 (Crediti immagine Carlo Tripodi via Flickr)

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