Nota dell’Autore: questo lavoro è l’estratto di un’analisi più complessa e di prossima pubblicazione, sulla storia e l’impatto del carbone nella navigazione meccanica, una breve stagione che rivoluzionò non solo la costruzione navale ed il commercio marittimo, ma cambiò totalmente l’ approccio sociale all’andar per mare.
TUTTO COMINCIO’ CON IL TITANIC
Il Titanic segna due capisaldi nella storia moderna della navigazione:
- il primo riguarda l’eccessiva facilità con cui costruttori e autorità di controllo si piegano agli interessi degli armatori;
- il secondo riguarda l’impatto mediatico della tragedia, che portò a definire nuove, ed apparentemente rigide, misure di sicurezza, con il valore di prescrizioni internazionali, le c.d. SOLAS (Safety Of Life At Sea), importanti certamente ma importanti per il fatto che ancor oggi vengono con molti artifizi ed eccezioni aggirate.
La convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Safety of Life At Sea, SOLAS) è il trattato più importante relativo alle navi mercantili e spazia dalla costruzione alla condotta. La sua prima versione risale al 1914, come reazione al disastro del Titanic, e definisce le norme minime per la costruzione delle navi mercantili, il loro allestimento ed equipaggiamento, il loro funzionamento. Si tratta di norme generali, in molti casi neppure recentissime (l’ultimo aggiornamento SOLAS totale è del 1974).
Quella del Titanic, a voler essere obiettivi e andando un po’ contro corrente rispetto alla storiografia corrente, è la storia di un grande progetto, una cattiva costruzione (materiali scadenti), una pessima gestione, con un evento casuale (la collisione con l’iceberg) che è servito a creare un mito, ad ammantare di una ineluttabile aurea romantica una serie di imperdonabili omissioni, a coprire ogni reale responsabilità.
Con il Titanic comincia (o forse solamente risulta evidente) un intreccio di connivenze ed omissioni, che si evolve nel comodo mito, e marketing, dei “transatlantici da sogno” che perdura ancor oggi, applicata alle “mostruose” navi da crociera.
La causa dell’affondamento del Titanic non è stata solo la collisione con un iceberg, ma, ormai è assodato, fu concomitante con un cedimento strutturale e con un esteso allagamento per aver mantenuto le porte stagne aperte.
Qui si apre un ventaglio di ipotesi, tutte con qualche riscontro, dall’ errore progettuale, alla scarsa qualità dei materiali, al difetto costruttivo, a un grave evento parallelo. Pur avendo la commissione di inchiesta americana rilevato ed approfondito quest’ultimo aspetto, da parte inglese si preferì, per ovvie ragioni economiche e di bandiera, lasciarlo in ombra rispetto alla collisione, quale evento catastrofico di minori responsabilità nazionali o collettive.
Il Titanic era un transatlantico, non una nave da guerra, ma era l’altra modalità della proiezione di potenza inglese, che attraverso una politica deliberata, sia con la Royal Navy che con la marina mercantile, voleva dimostrare di avere capacità superiori non solo alle altre due più grandi flotte mondiali messe insieme, ma ai relativi complessi cantieristici ed industriali.
Aspetto di un potere e di capacità industriali per le quali qualsiasi nuovo record ingegneristico, in campo navale per velocità o dimensioni, rassicurava e motivava un “impero su cui il sole non tramontava mai” e diventava un fattore di promozione e moltiplicatore di commesse, ragione per la quale le conclusioni delle commissioni di inchiesta non furono obiettive e si concentrarono sull’evento “naturale”, sulla pura casualità dello scontro con un mostro, l’iceberg, che non poteva essere previsto.
Quello che è certo che prima della collisione con l’iceberg a bordo era da giorni in atto un grave incendio in un carbonile, inutilmente combattuto dal personale di bordo, di gravità tale da far prevedere all’ arrivo a New York e dopo lo sbarco dei passeggeri, lo svuotamento dei carbonili e l’intervento dei pompieri.
Imbarcare su un transatlantico oltre 6.000 tonnellate era un’opera straordinaria, ma consumarle o solo pensare di sbarcarne una parte era un’impresa immane, peggio ancora pensare a una operazione di sbarco su percorsi certamente non previsti, con carbone acceso: anche questo potrebbe spiegare l’apparente inazione del comando di bordo.
Solo eliminare la cenere, senza interferire con i ponti superiori, comportava un’organizzazione eccezionale, un lavoro continuo ed enorme a cui ormai non si pensa, con necessità e percorsi predisposti sulle paratie che forse sono stati una delle cause concomitanti di allagamenti ed affondamenti. Sul Titanic esisteva persino un ascensore in zona prodiera per portare la cenere ad un livello che consentisse di farla spazzare dal mare, con lo stesso movimento della nave. Sbarcare carbone seguendo questa via sarebbe stata un’operazione complessa e comunque rischiosa.
Il Titanic imbarcava una quantità spaventosa di carbone, oltre 6.000 t che consumava con una velocità spaventosa, tanto da essere considerato di ridotta autonomia.
Comprensibile pertanto la necessita di forme di rifornimento rapido, considerando anche che le modalità di carbonamento dei transatlantici erano tali da evitare in ogni modo la contaminazione del combustibile sui ponti, per limitare lo sporco e non interferire con le operazioni relative ai passeggeri ed alle merci: le sistemazioni a murata progressivamente aprirono la strada ad un certo grado di meccanizzazione del ciclo del carbone, almeno nei principali porti di scalo dei transatlantici, per ridurne i tempi di sosta.
Nel corso degli anni vari esperti hanno ipotizzato che il fuoco potrebbe aver indebolito la struttura nave, accelerando il cedimento strutturale e questa, ad oggi, appare la causa più probabile della perdita della nave che – anche con i locali interessati dalla collisione completamente allagati – avrebbe dovuto rimanere a galla (salvo l’incognita delle porte ricavate nelle paratie stagne).
Oggigiorno non sarebbe neppure concepibile che una nave, per di più passeggeri, prenda il mare e navighi con un incendio a bordo, ma la realtà è che nell’era del carbone tali eventi, localizzati, erano all’ordine del giorno, “normalità” da affrontare con “metodi normali”: incendi latenti, senza fiamme e fumo (c.d. smoldering) che si pensava essere una routine senza rimedi, che si poteva tenere sotto controllo anche con i soli mezzi di bordo.
Quello che è certo, nell’analisi dell’affondamento del Titanic, è che sia le testimonianze del personale di macchina in sede di commissione statunitense di inchiesta sia in due successivi rapporti dell’ASME, l’Associazione degli Architetti ed Ingegneri navali, evidenziarono come l’incendio nei carbonili fosse di una gravità tale da fare ormai prevedere un intervento esterno, dei pompieri di New York, per estinguerlo.
Un’affermazione importante riguarda i rischi che si corrono e le perdite delle navi: il maggior nemico è il fuoco, si sono perse e si perdono più unità per incendio che per cause marinaresche o meteorologiche.
Sotto questo aspetto, anche se ormai il carbone non è più nel quadro della navigazione marittima, il Titanic è un “case study” non solo per la tipologia dell’incidente, ma anche perché esemplificativo di come, per garantire l’immagine della compagnia e la tranquillità dei passeggeri, si possano correre enormi rischi.
Le compagnie armatrici e i cantieri, sanno benissimo che l’opinione pubblica può riuscire a metabolizzare una catastrofe – che a volte può persino diventare mito ed epopea – ma non potrebbe mai perdonare, soprattutto politicamente, l’errore umano, l’incuria e lo sfruttamento dell’incuria stessa.
Il Titanic è affondato, il carbone non è più in uso, ma le cattive abitudini sono l’unica vera tradizione che si tramanda. La stessa stampa, neppure quella specializzata, presta spazio agli incidenti navali, a meno che non siano macroscopici, ed allora si tamponerà la falla trovando un colpevole, se non l’iceberg una figura umana, ma il sistema sarà sempre protetto.
Tornando al Titanic ed alla sua partenza, ragioni di immagine e di Stato imponevano che in nessun modo la partenza potesse essere rinviata eppure era già stato individuato, ben prima della partenza stessa, un fenomeno di autocombustione, molto intenso, nel carbonile di dritta, verso murata, a proravia del locale caldaie di n 6.
Per combattere tale incendio fu destinata permanentemente una squadra di 2 fuochisti, 12 persone in totale tra le varie guardie: così il carbone sulla parte superiore del deposito era bagnato, e mantenuto bagnato, ma il fondo della pila era asciutto.
Non è chiaro quando fosse iniziato il fenomeno, che fu rilevato per l’odore di zolfo, già prima della partenza della nave da Southampton per il suo viaggio inaugurale, un viaggio che per i motivi sopradetti non poteva essere rinviato.
Non è chiaro da quanto tempo questo incendio fosse in corso, ma dalla testimonianza dei fuochisti sopravvissuti risulta che sia continuato ed aumentato nelle 72 ore successive alla partenza, malgrado gli sforzi per estinguerlo del sempre più numeroso personale destinato a combatterlo: al loro allarme, gli ufficiali di macchina ed il comando di bordo imposero la consegna del silenzio per non allarmare i passeggeri.
La gravità era tale che come misura precauzionale per prevenire la diffusione dell’incendio per contatto a causa del surriscaldamento delle paratie, venne svuotato il più rapidamente possibile il contiguo carbonile del locale caldaie n 5, e poi – con una manovra molto rischiosa – venne buttato in caldaia carbone acceso del deposito n 6.
Alla commissione di inchiesta venne, forse troppo comodamente, riferito che l’incendio era stato estinto durante la guardia notturna (4-8 P.M.) del sabato 13 aprile, grazie ad una azione combinata di bagnatura superiore del carbone con manichetta e l’estrazione dal basso del carbone acceso per l’alimentazione delle caldaie, viste le difficoltà, se non impossibilità per grandi volumi, di buttarlo fuori bordo.
Venne altresì riferito che per effetto dell’incendio la parte inferiore della paratia stagna trasversale tra i locali caldaie 5 e 6 si era tanto surriscaldata da diventare rosso ciliegia.
Ai fini della comprensione del fenomeno è importante entrare nel dettaglio delle testimonianze rese alla commissione di inchiesta, per rendersi conto di quanto e come fossero empirici gli interventi e di fatto sconosciute le cause e le dinamiche dell’autocombustione.
I fuochisti riferirono che nel carbonile n. 6 erano stivate varie centinaia di tonnellate (non conosciamo l’altezza del carbonile per valutare la pressione specifica, ma certamente sappiamo che come effetto concomitante la temperatura sulla paratia interna doveva essere più elevata dell’ambiente esterno), e mentre gli strati superiori erano bagnati e mantenuti tali – come deve essere, ovviamente secondo l’interpretazione, l’abitudine e la testimonianza dei fuochisti – il fondo era asciutto.
Secondo un testimone
“…Il carbone asciutto in fondo alla pila ha preso fuoco, signore, e covava da giorni. Il carbone bagnato in cima ha permesso che non passassero le fiamme, ma verso il basso nella parte inferiore del deposito, signore, le fiamme infuriavano…”.
La giustificazione circa la bagnatura del carbone per contenere l’incendio, come la stessa azione per prevenirne l’accensione, dimostra quanto divergesse la pratica di bordo dalle
considerazioni scientifiche che cominciavano ad essere note ma non erano purtroppo recepite nella gestione operativa né a terra da chi sovrintendeva agli imbarchi né a bordo dal personale di macchina, meno dagli armatori e dagli organi di sorveglianza.
Per obiettività è necessario un richiamo ad un’altra causa concomitante dell’affondamento del Titanic: oltre all’indebolimento strutturale che con ogni evidenza ha portato al collasso delle strutture, ed oltre alla seria probabilità che gli acciai impiegati nella costruzione non fossero della qualità e resistenza dovuta, un altro grave fattore comportamentale contribuì alla perdita dell’unità.
Non solo per l’incendio ai carbonili citati, ma per poter alimentare le caldaie con l’enorme quantità di combustibile necessario, le porte stagne ricavate nelle paratie stagne erano mantenute aperte per permettere il traffico delle carriole dei carbonai.
Erano pertanto aperte nel momento della collisione con l’iceberg e questo portò all’immediato allagamento dei locali contigui, accelerando l’affondamento ed impedendo contro misure. Stranamente, malgrado l’allagamento il Titanic non evidenziò grandi perdite di stabilità, non si inclinò sul fianco e si inabissò, poi spezzandosi, di prua.
Al di là delle comode conclusioni ufficiali (inglesi, ma non americane) delle commissioni di inchiesta, nel tempo – e giustamente – nel caso del Titanic si incolpò il Comando di porto di Southampton ed i Registri di classifica per aver troppo superficialmente autorizzato la partenza del transatlantico per il viaggio inaugurale.
Intanto il clamore si era smorzato e la responsabilità, per l’opinione pubblica, era dell’iceberg, forse condita dall’errore umano del comando di bordo. L’ immagine dell’industria inglese era salva.
Su queste navi tutto era enorme, al punto di essere eccessivo, e forse era eccessiva anche la fiducia sui soli interventi manuali e la condotta, pressoché manuale, di queste grandi macchine.
Gian Carlo Poddighe
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