Ringraziamo Paolo Giannetti (idrografo, scienziato, ufficiale di Marina ed ispirato autore delle avventure di Capitan Bitta),  per averci inviato e consentito di pubblicare queste brevi note che, speriamo, possano stimolare la curiosità dei più giovani ai quali sono destinate.

Cogliamo l’occasione per segnalare, a quanti volessero approfondire l’argomento, che sul sito istituzionale della Rai è ancora visibile un interessante reportage realizzato da Milena Gabanelli per la trasmissione Mixer, condotta da Giovanni Minoli, andato in onda, per la prima volta, il 6.09.1990.

La giornalista, sbarcata sull’isola di Pitcairn a duecento anni dall’ammutinamento, con la consueta bravura, è riuscita a documentare le condizioni di vita dei discendenti dell’equipaggio del Bounty che  popolano quello sperduto fazzoletto di terra.

Il servizio può essere visionato cliccando sul seguente link: I figli del Bounty

L’ammutinamento del Bounty 

Il Bounty era originariamente un vascello mercantile che, dopo essere stato acquistato nel 1787 dalla Royal Navy, vide consumarsi, il 28 aprile del 1789, uno dei più famosi ammutinamenti della storia. Il drammatico atto di sedizione ispirò non solo un racconto di Jules Verne ma anche diverse opere cinematografiche (1)(2).

Il Bounty, era partito dall’Inghilterra nel dicembre del 1788 con 46 uomini di equipaggio diretto a Tahiti in Polinesia. Uno degli scopi della missione era prelevare campioni dell’albero del pane da trapiantare successivamente ai Caraibi, per fornire cibo a basso costo per gli schiavi che lavoravano nelle piantagioni.

La rotta pianificata non prevedeva di doppiare il Capo di Buona Speranza bensì di navigare verso Ovest, affrontando il temibile Capo Horn nella Terra del Fuoco, estrema punta del Sud America. La partenza fu ritardata e il sopraggiungere dell’inverno australe impedì di transitare da Capo Horn, costringendo il vascello a portarsi sulla rotta africana inizialmente scartata, allungando di molto il viaggio e provocando malumore tra l’equipaggio.

L’ammutinamento scoppiò nel viaggio di ritorno in patria, dopo la partenza  da Tahiti. Un manipolo di uomini, guidati da due giovani ufficiali, si impadronì della nave con un atto di ribellione per porre fine alla troppo rigida disciplina, nonché alle continue angherie e vessazioni inflitte all’equipaggio dal comandante William Bligh.

All’ammutinamento aderirono però soltanto 17 uomini. I ribelli lasciarono in mare, su una scialuppa di appena 7 m e larga 2 m,  il comandante Bligh e 18 marinai rimasti a lui fedeli. Venne data loro solo una bussola ed una piccola scorta di acqua e di viveri, affidandoli ad un tragico destino.

Il fato volle che, dopo 47 interminabili giorni di difficoltà e sofferenze, essi riuscissero a raggiungere, seppur stremati, l’isola olandese di Timor. Avevano percorso in mare ben 3.618 miglia (6.700 km): un vero record!

Altro destino toccò agli ammutinati i quali, in un primo tempo ritornarono a Tahiti dove imbarcarono viveri e donne, poi fecero rotta verso Pitcairn, un’isola scoperta da pochissimo le cui coordinate risultavano ancora incerte sulle carte di allora.

Lì essi diedero alle fiamme il Bounty e sperando di non essere più avvistati dalla Marina britannica, instaurarono nell’isola una nuova comunità.

Solamente 19 anni dopo una nave avrebbe scoperto l’isola e scovato gli ammutinati. In realtà, del gruppo originario era sopravvissuto solo John Adams, nel frattempo divenuto predicatore e guida dell’intera comunità ormai composta solamente da 12 donne e 23 bambini che furono trasferiti in Australia orientale.

Cieli sereni

Paolo Giannetti


Note

  1. Crediti immagine di copertina National Maritime Museum, Greenwich, London.
  2. Jules Verne, Les Révoltés de la Bounty.
  3. La filmografia relativa all’ammutinamento comprende tre pellicole: La tragedia del Bounty del 1935,  Gli ammutinati del Bounty del 1962 e Il Bounty del 1984.

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